mercoledì 24 giugno 2009

Mirame

Aveva appena posato il detersivo, quando si ritrovò immobile con la spugna in mano e gli occhi sgranati.
Il tintinnio delle gocce che cadevano dal rubinetto rendevano il ricordo ancora più inquietante.
Non poté fare a meno di guardare le sue dita, come se stesse studiando in realtà un fossile appena ritrovato, scoperto.
Le osservava, le muoveva, le allargava.
Erano passati diciannove anni da quel giorno.
Ci sono azioni, suoni, sensazioni che gli esseri umani compiono e sperimentano continuamente, però il momento impresso nella mente resta solo uno. E per sempre.
Era su una poltrona in vimini, guardava una stufa in ferro battuto e si chiedeva se era il caso di uscire dalla sua camera d’albergo.
E mentre pensava a ciò, iniziò a scrutare meticolosamente le sue unghie, le pieghe delle sue dita, la pelle ruvida, arida, non curata di quei giorni polverosi.
Tutto inizia così. Possono balenare improvvisamente pensieri a noi oscuri, o volutamente celati, nel bel mezzo di un gesto banale.
E così avvenne esattamente in quella giornata afosa, mentre lei era intenta a lavare le pentole del pranzo.
Eppure ora non doveva più sentirsi angosciata dalle scelte da intraprendere.
A quarantadue anni aveva deciso di vivere per inezia quella vita voluta, per tacito accordo, subito dopo la sua laurea. Non c’era giorno, in quel periodo, in cui non si tormentava su cosa fare, o in cui non fantasticava sul ruolo ideale da ricoprire in una azienda.
Ora, invece, non poteva che ricordarsi solo ПРИВЕТ! E tuttavia non era neanche più certa di riuscire a scrivere in cirillico.
Era ciò che le raccontava sempre sua madre da bambina. Lei era una donna intelligente ed aveva studiato per anni inglese, ma le confessava che, con il passar degli anni, si rimuove tutto.
“Give me five, it’s all right!” Questo adesso era tutto quello che lei dopo un matrimonio e due figli poteva scandire; e soprattutto lo ricordava grazie ad una canzone del momento.
E, nello stesso identico modo, seguendo lo stesso processo naturale, anche il suo frasario russo era caduto ora in oblio.
Adesso con Virginia evitava d pronunciare parole straniere. Perché si vergognava. E forse perché non si riconosceva più.
Ecco la ragione di quello straniamento ingiustificato. Le sue mani.
Le sue mani sembravano esattamente quelle di quando era in Argentina, a ventidue anni.
Erano aride, ruvide, non curate.
Ma non per le impolverate giornate andine trascorse a comprendere e ad esplorare.
Ora aveva accantonato le sue passioni, ignorava la sua laurea in lingue, la sua insostenibile devozione verso le persone sbagliate, la sua collezione di palle di neve.
Le sue mani erano ruvide per ciò che quotidianamente faceva.
E pensare che prima, se le si chiedeva di associare al concetto di donna delle parole, lei subito, prontamente, elencava le suffragette, la Woolf, Artemisia Gentileschi.
Era diventata tutto ciò che aveva sempre temuto e snobbato.
Purtroppo a volte l’equilibrio è più importante del sentirsi viva.
La domanda era sempre la stessa, nonostante tra le due diverse donne che lei stessa era ed era stata, non ci fosse più nulla in comune. Si chiedeva se poteva continuare a desiderare questo. Si chiedeva cosa avrebbe esattamente dovuto scegliere.
La questione è che adesso non poteva più tornare indietro.
Con il pollice sfiorava l’unghia scheggiata del dito medio, con il polpastrello ne seguiva la forma, sondava la rotondità, mentre fissava la schiuma svanire nel lavabo.
Forse avrebbe dovuto insistere anni fa; o essere più coraggiosa.
Adesso, del suo “piccolo mondo antico”, come chiamava la sua vita quando era una ragazza apparentemente e mediamente erudita, restava solo e soltanto il nome dato alla sua prima figlia: Virginia.
Virginia.
Proprio per lei, per Virginia, voleva aspettare il momento giusto per rivelare chi era stata.
Normalmente non si riesce ad affiancare alla visione della propria madre una vita privata antecedente al matrimonio.
Ma Virginia aveva diritto di sapere. Doveva evitare di commettere il suo stesso errore; qualunque fosse stato. Anche in caso avesse reputato la vita dedita solo alle sue due figlie un errore.
Anche sua madre, un giorno, le aveva elencato i suoi sogni, i suoi sbagli adolescenziali, le sue convinzioni. E dopo quel pomeriggio lei si era sentita, purtroppo o per fortuna, in dovere di realizzare tutto ciò che lei, sua madre, non aveva potuto fare.
Le sembrava un labirinto senza uscita, un continuo districarsi dalle sabbie mobili in cui si è intrappolati fino alle anche.
Era ambiziosa, voleva viaggiare e viaggiava, dipingeva, scriveva, studiava, immaginava, sognava, pretendeva, urlava.
Poi, improvvisamente, si era ritrovata con un lavoro nella norma, ma con i pomeriggi liberi; si era ritrovata con la sua cameretta nella casa dei suoi genitori finalmente arredata dall’Ikea; col suo gatto, che però ora non poteva considerare più suo figlio, ma come un’adozione spontanea della sua famiglia; con le estati trascorse in spiaggia, a leggere sugli scogli, e non per le vie caotiche di Bombay o Buenos Aires.