Luci, alberi, nuvole, un campanile
Cielo rosa, cielo blu, cielo sospeso, ovattato, infinito
Ali, finestre, una lampada accesa e subito è intimità
Seguo i gabbiani, seguo le rondini, seguo i merli
Li seguo per essere in un altro posto
Li seguo per essere in quella cucina
Rumore di posate, il timer del forno, una tovaglia infeltrita
Denti scintillanti, labbra sorridenti, sguardi complici
Adesso non sorvolo più
Dietro la finestra, specchio appannato
Musica che non fa ascoltare i pensieri
Macigno sullo stomaco
Solitudine
Memorie di una ragazza perbene
Cicatrici, nostalgia e silenzi
venerdì 18 marzo 2011
Bergamo, casa
Introspezione e intimismo sono la chiave per scoprire la città di Bergamo.Non fermatevi all’apparenza di vicoli affollati da turisti giunti con voli low-cost e panifici straripanti di focacce, tanto costose quanto farcite e appetitose, ma cercate il significato più profondo celato dietro le mura di questo borgo: la pavimentazione non confortevole, l’odore dell’ erba bagnata dopo la perenne pioggia invernale, gli scorci insoliti di piante tenacemente aggrappate alla pietra, gli alberi non verdi e aridamente bruni.Queste non sono solo "cose" da vedere e vivere a Bergamo, ma racchiudono in sé universi legati ad emozioni e turbamenti.Gli scenari cittadini possono narrare e raffigurare infiniti stati d’animo di viandanti in cerca di bivacco, di universitari flemmatici, di nonne dai fardelli troppo pesanti, perfino di emigranti alla ricerca di equilibrio interiore!Qui a Bergamo puoi sentirti malinconico, puoi sentirti sentimentale, puoi sentirti abbandonato, puoi sentirti inquieto, puoi sentirti leggero.Bergamo è la sintesi perfetta tra esotismo e meditazione, é la sintesi del rapporto tra la cultura e la natura che riaffiora inaspettatamente nell’intera anima cittadina che si esprime con la sua labirintica planimetria.Puoi sorseggiare un caffè al ginseng nel cortile della rinomata e decennale università, mentre ti informi sulle prime frizzanti indiscrezioni primaverili, puoi trangugiare un panino sui muretti gremiti di muschio impregnato di umidità, presente in ogni singolo centimetro della città alta; un muschio capace di ricondurti docilmente e nostalgicamente ai tuoi ricordi infantili, probabilmente colmi di raggi accecanti di sole, spensieratezza e scampagnate pomeridiane.Oppure puoi, in alternativa, perderti alla ricerca di ruderi abbandonati e incastonati tra antichi palazzi d’epoca e vagare per sentieri in salita scrutando dall’alto il caotico flusso di individui che si districa in città bassa, rimembrando, nel frattempo, erranti vite precedenti, affannate ma incomparabili.
Recensione: Il caos e Dana
Profonda, evocatrice, evanescente, labile, sospesa: è così la canzone Purificazione dei "Il Caos e Dana". E non potrebbe essere altrimenti.
Il titolo già ci induce a immergerci in un'atmosfera sognante e, le prime note, dita delicate che scivolano su di un piano, ci accompagnano per mano in questo percorso.
Un testo che sembra poesia, un racconto magico, seppur breve, capace di lasciar susseguire e di dare vita nella nostra mente a scenari di armonia e calma.
Una voce calda ma incisiva, intensa e graffiante, a tratti sofferente; una voce pulsante, penetrante, che fa scivolare le parole in questo viaggio incantevole di quattro minuti; quattro lunghi minuti in cui si materializzano, davanti ai nostri occhi, immagini, flash e percezioni, grazie a queste poche strofe accennate, abbozzate, ma sempre mirate.
Basta poco per poter asserire di aver visto ciò che il testo descrive.
Nulla è superfluo, non lo sono le note, non lo sono le parole, non lo è la voce di Dana Andrews, cantante jazz affermata.
Non riscontro pecche. Non credo ce ne siano mai quando una canzone riesce a trasmetterti relax, calandoti in un'atmosfera di altri tempi, di un passato remoto, o di una sera recente e afosa, in cui cerchi disperatamente una melodia che ti tenga sospeso.
Lasciamo fare allora ai " Il Caos e Dana" quello che si sono prefissi: lasciamoci influenzare da questa musica che cura il nostro animo; lasciamoci trasportare in balia di queste torride note di pianoforte da questa penetrante oratrice.
Il titolo già ci induce a immergerci in un'atmosfera sognante e, le prime note, dita delicate che scivolano su di un piano, ci accompagnano per mano in questo percorso.
Un testo che sembra poesia, un racconto magico, seppur breve, capace di lasciar susseguire e di dare vita nella nostra mente a scenari di armonia e calma.
Una voce calda ma incisiva, intensa e graffiante, a tratti sofferente; una voce pulsante, penetrante, che fa scivolare le parole in questo viaggio incantevole di quattro minuti; quattro lunghi minuti in cui si materializzano, davanti ai nostri occhi, immagini, flash e percezioni, grazie a queste poche strofe accennate, abbozzate, ma sempre mirate.
Basta poco per poter asserire di aver visto ciò che il testo descrive.
Nulla è superfluo, non lo sono le note, non lo sono le parole, non lo è la voce di Dana Andrews, cantante jazz affermata.
Non riscontro pecche. Non credo ce ne siano mai quando una canzone riesce a trasmetterti relax, calandoti in un'atmosfera di altri tempi, di un passato remoto, o di una sera recente e afosa, in cui cerchi disperatamente una melodia che ti tenga sospeso.
Lasciamo fare allora ai " Il Caos e Dana" quello che si sono prefissi: lasciamoci influenzare da questa musica che cura il nostro animo; lasciamoci trasportare in balia di queste torride note di pianoforte da questa penetrante oratrice.
giovedì 17 marzo 2011
Bisceglie
Il tuo viaggio nel Sud deve cominciare da qui. Da un paese fin troppo assolato, da una terra brulla e calpestata da pittoreschi agricoltori dagli arnesi arrugginiti, dall’odore di salsedine che ti penetra nelle vie respiratorie e nella mente.
Bisceglie, ridente comun pugliese, popolato da 55.000 anime, poco valorizzato turisticamente, con monumenti di dubbio interesse e ignoti, vi sconcerterà!
Tornaci per le festività pasquali, tornaci quando sarai abbastanza nostalgico o inaridito dalla vita in una grigia metropoli; tornaci, o visitala per la prima volta, se cercate un contatto con le vostre vere radici o con una idea di autenticità: gente verace, lo scorrere di giornate dai ritmi lenti, flussi di parole pronunciate in uno strano vernacolo che sembra arabo, osterie dalle sedie in plastica bianche e dai prezzi popolari.
Qui puoi tentare di organizzare un itinerario turistico che coinvolga un tour sepolcrale di minuscole e vecchie chiesette, traboccanti di ceri rossi accesi da ore, di veli di pizzo neri che adornano i visi rugosi delle devote nonne, troppo segnati dal tempo e dalla fatica.
Oppure, in alternativa, potresti esplorare le zone campestri limitrofe ai confini cittadini, gremite di trulli adibiti a magazzini, di piante grasse non autoctone, di bracieri incrostati per le interminabili grigliate goliardiche e di bottiglie di Peroni incastonate nel terreno come obelischi romani, mentre ti concederai una inaspettata rivelazione per l’agricoltura, che ti conducerà alla raccolta di asparagi situati accanto ai pericolanti muretti a secco.
Accedi al centro storico, affettuosamente chiamato “Bisceglie vecchia” da vie secondarie, perdendoti per la mancanza di segnaletica che indichi i rari monumenti e punti di interesse, fatta eccezione per la piazzetta che ospita il settimanale mercato della domenica dei polacchi, signori pugliesi soprannominati come tali poiché adibiti alla vendita di cianfrusaglie adesso reputate vintage.
Dalle 9.00 alle 12.00 fruga tra le polverose bancarelle improvvisate con assi di legno su cui sono adagiati candelabri, teiere, posate spaiate, bomboniere di matrimoni, libri scolastici degli anni ‘50, sorprese dell’ uovo Kinder, e ancora scarpe, utensili, videocassette, colbacchi poco caratteristici. Oggetti quotidiani che maneggiati sprigionano delicate e sottili ripercussioni sui moti d’animo, evocando ambienti e sensazioni, una volta quotidiane, da cui ormai sei tanto lontano! La fantasia li abbellisce, quasi irraggiandolo d'immagini care le superfici di ceramica o plastica. Nell'oggetto insomma amiamo quel che vi mettiamo di noi, procurandoci piacere per quello che in esso troviamo di nostro.
Se sei invece alla ricerca di una immersione negli aspetti folkloristici e leggendari di ambigua attendibilità, nati tra i muri di bugnato del borgo antico, lasciati turbare da una tipica conversazione con un anziano del posto, che ti illustrerà, biascicando a stento parole in lingua italiana, le origini del nome del paese: “Vescegghie”, zona caratterizzata da un tipo di quercia imponente e secolare.
E se ti concedessi di giorno, al mattino, come consuetudine magati, un meditante accovaccia mento su uno scoglio, in spiaggia?
La spiaggia del paese, la spiaggia in cui ha imparato a nuotare e a tuffarti, dove passava le estati, con una bottiglietta d'acqua e il panino col tonno e pomodoro preparato con un metodo infallibile, testato dalla mamma per non farlo strabordare.
Come ogni mattina,dopo aver contemplato il mare, puoi farti avvolgere dall'alito della brezza marina e desiderare di possedere una piccola barca, per andare al largo, per poter osservare la vita da quel nuovo punto di vista .Puoi desiderare di possedere quel mare, quella libertà.Per chi ama, nei giorni afosi, andare in riva al mare e raccogliere le conchiglie, come se fosse ancora un bambino, divertiti con una muta per colui che resta ore ed ore sotto quell'acqua per cercare i ricci.Per colui che ama così tanto il mare che ha appeso una fotografia di quei ricci nell’ angusto ufficio, dove vende sogni e speranze.
Oppure sperimenta l’esperienza millenaria della “togli paura”, donna dalla saggezza popolare e dai poteri divini, che espone i suoi “trattamenti” su di un cartello dell’abitazione a pian terreno. Nonostante l’aspetto anacronistico e la funzione non educativa del rituale, la musicalità delle sue preghiere e le magiche gesta ti sconvolgeranno e ti trascineranno in uno stato di perenne confusione tra il sacro e il mefistofelico.
Bisceglie, ridente comun pugliese, popolato da 55.000 anime, poco valorizzato turisticamente, con monumenti di dubbio interesse e ignoti, vi sconcerterà!
Tornaci per le festività pasquali, tornaci quando sarai abbastanza nostalgico o inaridito dalla vita in una grigia metropoli; tornaci, o visitala per la prima volta, se cercate un contatto con le vostre vere radici o con una idea di autenticità: gente verace, lo scorrere di giornate dai ritmi lenti, flussi di parole pronunciate in uno strano vernacolo che sembra arabo, osterie dalle sedie in plastica bianche e dai prezzi popolari.
Qui puoi tentare di organizzare un itinerario turistico che coinvolga un tour sepolcrale di minuscole e vecchie chiesette, traboccanti di ceri rossi accesi da ore, di veli di pizzo neri che adornano i visi rugosi delle devote nonne, troppo segnati dal tempo e dalla fatica.
Oppure, in alternativa, potresti esplorare le zone campestri limitrofe ai confini cittadini, gremite di trulli adibiti a magazzini, di piante grasse non autoctone, di bracieri incrostati per le interminabili grigliate goliardiche e di bottiglie di Peroni incastonate nel terreno come obelischi romani, mentre ti concederai una inaspettata rivelazione per l’agricoltura, che ti conducerà alla raccolta di asparagi situati accanto ai pericolanti muretti a secco.
Accedi al centro storico, affettuosamente chiamato “Bisceglie vecchia” da vie secondarie, perdendoti per la mancanza di segnaletica che indichi i rari monumenti e punti di interesse, fatta eccezione per la piazzetta che ospita il settimanale mercato della domenica dei polacchi, signori pugliesi soprannominati come tali poiché adibiti alla vendita di cianfrusaglie adesso reputate vintage.
Dalle 9.00 alle 12.00 fruga tra le polverose bancarelle improvvisate con assi di legno su cui sono adagiati candelabri, teiere, posate spaiate, bomboniere di matrimoni, libri scolastici degli anni ‘50, sorprese dell’ uovo Kinder, e ancora scarpe, utensili, videocassette, colbacchi poco caratteristici. Oggetti quotidiani che maneggiati sprigionano delicate e sottili ripercussioni sui moti d’animo, evocando ambienti e sensazioni, una volta quotidiane, da cui ormai sei tanto lontano! La fantasia li abbellisce, quasi irraggiandolo d'immagini care le superfici di ceramica o plastica. Nell'oggetto insomma amiamo quel che vi mettiamo di noi, procurandoci piacere per quello che in esso troviamo di nostro.
Se sei invece alla ricerca di una immersione negli aspetti folkloristici e leggendari di ambigua attendibilità, nati tra i muri di bugnato del borgo antico, lasciati turbare da una tipica conversazione con un anziano del posto, che ti illustrerà, biascicando a stento parole in lingua italiana, le origini del nome del paese: “Vescegghie”, zona caratterizzata da un tipo di quercia imponente e secolare.
E se ti concedessi di giorno, al mattino, come consuetudine magati, un meditante accovaccia mento su uno scoglio, in spiaggia?
La spiaggia del paese, la spiaggia in cui ha imparato a nuotare e a tuffarti, dove passava le estati, con una bottiglietta d'acqua e il panino col tonno e pomodoro preparato con un metodo infallibile, testato dalla mamma per non farlo strabordare.
Come ogni mattina,dopo aver contemplato il mare, puoi farti avvolgere dall'alito della brezza marina e desiderare di possedere una piccola barca, per andare al largo, per poter osservare la vita da quel nuovo punto di vista .Puoi desiderare di possedere quel mare, quella libertà.Per chi ama, nei giorni afosi, andare in riva al mare e raccogliere le conchiglie, come se fosse ancora un bambino, divertiti con una muta per colui che resta ore ed ore sotto quell'acqua per cercare i ricci.Per colui che ama così tanto il mare che ha appeso una fotografia di quei ricci nell’ angusto ufficio, dove vende sogni e speranze.
Oppure sperimenta l’esperienza millenaria della “togli paura”, donna dalla saggezza popolare e dai poteri divini, che espone i suoi “trattamenti” su di un cartello dell’abitazione a pian terreno. Nonostante l’aspetto anacronistico e la funzione non educativa del rituale, la musicalità delle sue preghiere e le magiche gesta ti sconvolgeranno e ti trascineranno in uno stato di perenne confusione tra il sacro e il mefistofelico.
Luglio 2009
Non siamo pronti. Non sono pronta io per dividere di nuovo il mio letto con qualcuno. Non sei pronto tu per vedermi girare per la tua casa. Non siamo pronti noi per quei dolci baci dopo aver fatto sesso.
Non credo
Non credo di poter mai riuscire a capire cosa possa essere l’amore vero.
È lo struggersi per una persona se questa non c’è?
È soffrire per la sua assenza o a causa di una lite?
È cedergli l’ultimo pezzo di torta?
È evitare di fare cose che potrebbero destabilizzare il rapporto? Tipo dire cose insensate, vendicarsi o addirittura tradire?
Se è così non proverò mai cosa è l’amore. Potrò solo sapere cosa significa essere innamorata.
Quello lo so bene.
Mi conosco quando sono innamorata. Sono felice, ascolto canzoni pop stupide, guardo la persona e sorrido o guardo le vetrine e ogni oggetto vorrebbe essere un regalo per lui.
Molte volte ho nascosto di essere innamorata. Ma dicono che i miei occhi non sanno mentire.
E loro, alla fine, se ne son accorti. E son scappati.
L’innamoramento però, essendo solo una fase, ha una durata breve. Gli sussegue l’amore, la stabilità del sentimento, l’equilibrio, la pace dei sensi, la felicità perenne, la sicurezza, qualsiasi sia la forma che esso assume per me l’amore è solo una fase di stasi mortale.
È per questo che ho cercato molte volte di stravolgere tutto, di rovinare tutto e di rivivere le sensazioni dell’innamoramento, quando aspetti un suo messaggio, quando provi a chiamare e il cellulare spento ti fa impazzire, quando una sua parola ti cambia la giornata.
Non ci sarebbe nulla di strano se non fosse che questo stadio io lo raggiungo solo soffrendo.
Se soffro so che sono innamorata. Se la situazione è complicata, invivibile, se non merita di essere vissuta io mi ostino, soffro e amo.
Forse è per questo che odio sentire le coppie che parlano al telefono, chiamandosi coi nomignoli e emettendo gridolini di gioia. Forse è per questo che la vista di un cuore mi da il voltastomaco.
Eppure, in fondo, so che è soltanto un’arma. Disprezzo perché non posso avere. Disprezzo perché ammiro.
Ammiro chi convive con la lontananza, chi è capace di esternare ciò che prova, chi sa dire “ti amo”, chi lo dice pensandolo.
Invidio chi non vede l’ora di trascorrere una giornata con lui senza chiedersi dove andare e cosa fare, chi fa progetti senza sentirsi braccato.
Dicono che l’amore è cedere la parte migliore di pollo a tuo marito. Io non potrò mai amare. Non cederò mai il cibo a nessuno. Non mi priverò di qualcosa per qualcuno, non sarò meno egoista per qualcuno. E’ una triste condanna la mia. Aspirare a qualcosa di buono, ma non raggiungerlo, anzi scegliere di non raggiungerlo.
È per questo che scelgo per me solo persone sbagliate. Lo faccio per non sentirmi cattiva. La bontà mi spiazza. Non so come reagire, come rapportarmi. Mi succede fin da piccola. Papà mi comprava l’inserto speciale dei Backstreet boys e io non sapevo dire grazie. Lo prendevo, mi chiudevo in camera e soltanto alla domanda “hai visto poi cosa ho ti ho preso?” rispondevo “si, è in camera mia”.
Come potrei scegliere per me una persona che mi renda felice? Non saprei cosa dirgli. Non posso di certo dire “si, lo so”.
È come quando ho risposto “grazie” ad una dichiarazione. Lui mi dice “ti amo” e io lo ringrazio. Tutto normale.
In realtà a volte penso che continuerò a rispondere sempre “grazie” o a mentire.
Non sapendo se son in grado di provare lo stesso sentimento, non mi resta altra scelta.
“Mi ami?”, mi chiedono. Ed io nel frattempo penso a come sviare la riposta per non dire la verità, per non dire che non potrò mai essere buona, che in me del buono non c’è. E chissà chi mai lo avrà visto o cosa ha visto.
Allora ho imparato a rispondere con un “dipende”. Insomma è vago: dipende dai tuoi atteggiamenti, dalla mia stabilità momentanea, dipende da quanto dura, da dove sono, da dove sarò.
È più comodo soffrire. Nessuno ti chiede niente, non ti senti giudicato, anzi, sei tu a giudicare il tuo carnefice. Lui non fa niente per me e io soffro. Lui si vendica quando litighiamo e io piango. Lui ha un’altra e io sto male e mi sento impotente.
Non sono io a dovermi sentire in colpa se non rispondo al telefono, se non ho voglia di vedere qualcuno, se non rispetto o se rispondo sgarbatamente.
L’amore è economia. Ma non è un dare e avere, no. E’ solo una ricerca del profitto per sé.
E cosa resta ora? Cosa resta ad una che non nega e non nasconde di non poter provare qualcosa di sincero in modo stabile e non nocivo? Posso solo aspettare di vivere una situazione in cui possa sentirmi viva … facendomi del male.
Perché dovrei farlo a te? Dovresti essermene grato, no?
È lo struggersi per una persona se questa non c’è?
È soffrire per la sua assenza o a causa di una lite?
È cedergli l’ultimo pezzo di torta?
È evitare di fare cose che potrebbero destabilizzare il rapporto? Tipo dire cose insensate, vendicarsi o addirittura tradire?
Se è così non proverò mai cosa è l’amore. Potrò solo sapere cosa significa essere innamorata.
Quello lo so bene.
Mi conosco quando sono innamorata. Sono felice, ascolto canzoni pop stupide, guardo la persona e sorrido o guardo le vetrine e ogni oggetto vorrebbe essere un regalo per lui.
Molte volte ho nascosto di essere innamorata. Ma dicono che i miei occhi non sanno mentire.
E loro, alla fine, se ne son accorti. E son scappati.
L’innamoramento però, essendo solo una fase, ha una durata breve. Gli sussegue l’amore, la stabilità del sentimento, l’equilibrio, la pace dei sensi, la felicità perenne, la sicurezza, qualsiasi sia la forma che esso assume per me l’amore è solo una fase di stasi mortale.
È per questo che ho cercato molte volte di stravolgere tutto, di rovinare tutto e di rivivere le sensazioni dell’innamoramento, quando aspetti un suo messaggio, quando provi a chiamare e il cellulare spento ti fa impazzire, quando una sua parola ti cambia la giornata.
Non ci sarebbe nulla di strano se non fosse che questo stadio io lo raggiungo solo soffrendo.
Se soffro so che sono innamorata. Se la situazione è complicata, invivibile, se non merita di essere vissuta io mi ostino, soffro e amo.
Forse è per questo che odio sentire le coppie che parlano al telefono, chiamandosi coi nomignoli e emettendo gridolini di gioia. Forse è per questo che la vista di un cuore mi da il voltastomaco.
Eppure, in fondo, so che è soltanto un’arma. Disprezzo perché non posso avere. Disprezzo perché ammiro.
Ammiro chi convive con la lontananza, chi è capace di esternare ciò che prova, chi sa dire “ti amo”, chi lo dice pensandolo.
Invidio chi non vede l’ora di trascorrere una giornata con lui senza chiedersi dove andare e cosa fare, chi fa progetti senza sentirsi braccato.
Dicono che l’amore è cedere la parte migliore di pollo a tuo marito. Io non potrò mai amare. Non cederò mai il cibo a nessuno. Non mi priverò di qualcosa per qualcuno, non sarò meno egoista per qualcuno. E’ una triste condanna la mia. Aspirare a qualcosa di buono, ma non raggiungerlo, anzi scegliere di non raggiungerlo.
È per questo che scelgo per me solo persone sbagliate. Lo faccio per non sentirmi cattiva. La bontà mi spiazza. Non so come reagire, come rapportarmi. Mi succede fin da piccola. Papà mi comprava l’inserto speciale dei Backstreet boys e io non sapevo dire grazie. Lo prendevo, mi chiudevo in camera e soltanto alla domanda “hai visto poi cosa ho ti ho preso?” rispondevo “si, è in camera mia”.
Come potrei scegliere per me una persona che mi renda felice? Non saprei cosa dirgli. Non posso di certo dire “si, lo so”.
È come quando ho risposto “grazie” ad una dichiarazione. Lui mi dice “ti amo” e io lo ringrazio. Tutto normale.
In realtà a volte penso che continuerò a rispondere sempre “grazie” o a mentire.
Non sapendo se son in grado di provare lo stesso sentimento, non mi resta altra scelta.
“Mi ami?”, mi chiedono. Ed io nel frattempo penso a come sviare la riposta per non dire la verità, per non dire che non potrò mai essere buona, che in me del buono non c’è. E chissà chi mai lo avrà visto o cosa ha visto.
Allora ho imparato a rispondere con un “dipende”. Insomma è vago: dipende dai tuoi atteggiamenti, dalla mia stabilità momentanea, dipende da quanto dura, da dove sono, da dove sarò.
È più comodo soffrire. Nessuno ti chiede niente, non ti senti giudicato, anzi, sei tu a giudicare il tuo carnefice. Lui non fa niente per me e io soffro. Lui si vendica quando litighiamo e io piango. Lui ha un’altra e io sto male e mi sento impotente.
Non sono io a dovermi sentire in colpa se non rispondo al telefono, se non ho voglia di vedere qualcuno, se non rispetto o se rispondo sgarbatamente.
L’amore è economia. Ma non è un dare e avere, no. E’ solo una ricerca del profitto per sé.
E cosa resta ora? Cosa resta ad una che non nega e non nasconde di non poter provare qualcosa di sincero in modo stabile e non nocivo? Posso solo aspettare di vivere una situazione in cui possa sentirmi viva … facendomi del male.
Perché dovrei farlo a te? Dovresti essermene grato, no?
Dodici
Avete mai pensato se sia normale essere possessivi degli oggetti?
Essere gelosi di ciò che si possiede, provare amore per le cose che ti circondano, volerle conservare, archiviare, mitizzare?
Avete mai stretto qualcosa e sentirla vostra?
Io ho iniziato col mio temperamatite. O forse anche prima. E’ a scuola, all’asilo che inizi a rapportarti con i tuoi oggetti, prima non ne hai la possibilità. Vivi braccato tra le pareti della tua stanza, tra scatole e cesti in vimini stracolmi di giocattoli, di tuoi giocattoli. Quelli di tuo fratello non sono lì, sono appositamente separati.
Poi un giorno ti catapultano nel mondo adulto. Si, è proprio l’asilo l’approccio al mondo adulto. Devi separarti da tua madre, devi pranzare con estranei, devi farti aiutare a lavare le mani da maestre sconosciute, fidandoti di loro, e, soprattutto, devi custodire i tuoi oggetti. Si, gli oggetti, il legame con la tua casa, con la tua intimità. Il fazzoletto di tessuto celeste di tua madre, la sacca porta posate cucita da lei, il tuo zainetto rosa con le fragole.
Cosa succede se sei in aula e inizi a sentirti perso? Cosa accade se ti senti solo, se gli altri ti spaventano o se improvvisamente senti nostalgia della tua casa? Apri lo zaino ed estrai uno di quegli oggetti. Lo guardi, lo stringi, lo afferri con veemenza, lo porti vicino al petto, vicino al cuore.
Essere gelosi di ciò che si possiede, provare amore per le cose che ti circondano, volerle conservare, archiviare, mitizzare?
Avete mai stretto qualcosa e sentirla vostra?
Io ho iniziato col mio temperamatite. O forse anche prima. E’ a scuola, all’asilo che inizi a rapportarti con i tuoi oggetti, prima non ne hai la possibilità. Vivi braccato tra le pareti della tua stanza, tra scatole e cesti in vimini stracolmi di giocattoli, di tuoi giocattoli. Quelli di tuo fratello non sono lì, sono appositamente separati.
Poi un giorno ti catapultano nel mondo adulto. Si, è proprio l’asilo l’approccio al mondo adulto. Devi separarti da tua madre, devi pranzare con estranei, devi farti aiutare a lavare le mani da maestre sconosciute, fidandoti di loro, e, soprattutto, devi custodire i tuoi oggetti. Si, gli oggetti, il legame con la tua casa, con la tua intimità. Il fazzoletto di tessuto celeste di tua madre, la sacca porta posate cucita da lei, il tuo zainetto rosa con le fragole.
Cosa succede se sei in aula e inizi a sentirti perso? Cosa accade se ti senti solo, se gli altri ti spaventano o se improvvisamente senti nostalgia della tua casa? Apri lo zaino ed estrai uno di quegli oggetti. Lo guardi, lo stringi, lo afferri con veemenza, lo porti vicino al petto, vicino al cuore.
Iscriviti a:
Post (Atom)